Di Gioacchino Papaleo, socio dell’accademia, una simpaticissima ricerca descritta durante la serata del Lions Club Host Ancona al ristorante Passetto di Ancona dove è stata ospite l’accademia dello stoccafsso all’anconitana.
All’interno del “racconto” alcune poesie che sono state inserite per poi essere recitate da Alfredo Cartocci.
L’intervento è integrale.
A Papaleo il ringraziamento per la gentile concessione.
Come si mangia e cosa si beve nell’anconetano
Con il possesso del fuoco, prima grande conquista dell’umanità, inizia l’alba della cucina ed è proprio il cucinare che spingerà l’uomo verso i primitivi elementi di cultura e di arte.
Ancona che presenta tanta varietà e bellezza di panorami, tanta ricchezza di monumenti d’arte, è anche straordinariamente interessante per le manifestazioni della vita del suo popolo.
La dovizia di bellezze naturali, storiche ed artistiche, da sola direbbe che la ns. terra è un magnifico museo in un ambiente incantevole, ma non giustificherebbe il fascino che a tutti i visitatori desta Ancona.
Vita agricola innanzi tutto, onde manifestazioni di operosità rurale variatissime, spesso originali, sempre degne di attenzione.
Il mio compito, in questa sede, non è però quello di porre in risalto le bellezze delle ns. contrade ma quello di mettere in luce un altro aspetto del ns. popolo: “cosa mangia” e “come beve”.
Dico “come beve” perché l’anconitano, si sa, non beve che vino; è la sua bevanda secolare da cui nessuna forza di pubblicità e nessun tentativo di proibizionismo lo ha mai distolto. “Cosa mangia”, quindi, e “come beve”.
PURCHETA INDIGESTA
Purcheta, t’ha chiamato. AI feminile:
perchè in tal sèsso sai più numerosa?
Per un riguardo al sèsso tuo gentile?
Opure, dime, per qualch’antra cosa?
Comunque sia, me piace tanto, a dìle
le gran virtù che ci hai: bona, udorosa,
ce smòvi tute quante le papìle
del naso e del palato: e fai gulosa
ogni perzona che te guarda e udora
e pare che vòi dije: « Magna, magna!
E’ la fiama dellécio che m’indora,
me fa crocànte; bévece un bucàle… »
(Ma c’è mi moje che me fa la lagna:
« Mario, nun magna’ tanto, te fa male! »).
Mario Tomassi da “Aria de mare” (1966)
L’argomento è tutt’altro che prosaico e volgare; è del massimo interesse. Non solo perché le gioie della mensa sono le più schiette, sane, naturali ed atte ad accomunare gli uomini, a renderli uniti, a fare più intimi i dolci vincoli attorno al desco familiare ma anche perché varietà grandissima di cibi e di maniera di preparali da paese a paese è, tra noi, una delle caratteristiche tradizionali così da costituire un elemento del costume.
Conoscere e descrivere tutte queste specialità non è facile anche a causa della natura, notoriamente schiva e apparentemente chiusa, delle ns. genti.
Corre comunque da tempo la fama di alcune di esse ma sono una quantità trascurabile rispetto alla grande massa di cui è ricca Ancona.
Sarebbe interessante ricercare più a fondo di quanto finora si sia fatto, le intime ragioni storiche, fisiologiche, tradizionali, folcloristiche, economiche e altre per le quali certe vivande, certi condimenti, taluni dolci, si sono come irradicati in date località e con le loro abitudini di vita e di lavoro e, talora, anche col tesoro delle leggende o colle loro credenze religiose.
A quest’ultimo proposito mi piace ricordare l’influenza che ha avuto,anche nella cucina anconetana, la presenza della fiorente comunità ebraica.
Che dire poi del perché di alcuni ortaggi, di alcuni pesci e di alcune carni che si trovano anche in buona parte dell’Italia e che si sono fatti da noi una rinomanza di pregio veramente fondata?
La cucina anconetana, anche quella dei pantagruelici pranzi di nozze ancora in uso nelle campagne, è generalmente semplice, non eccessivamente ricca di grassi e di spezie.
E’ una cucina così detta povera che lascia alle vivande il loro sapore.
Né va dimenticata l’influenza che ha, sulla composizione dei menù, il variare delle stagioni.
E’ da tener presente, al riguardo, che la ns. cucina si basa, in modo quasi totale, sui prodotti che ricava dalla sua buona terra o dal suo mare generoso.
Che dire della bontà dei prodotti quali verdure ottime, alcune delle quali altrove poco conosciute come: i roscani conditi con olio e aceto, il cui gusto viene arricchito dalla presenza della mentuccia e dell’aglio, i pincicarelli: famosi nell’anconetano, quasi sconosciuti altrove, di cui si mangiano i sostegni carnosi delle infiorescenze. Da farsi lessi o fritti o in umido. La denominazione di questo ortaggio è dovuta al fatto che esso si presenta spinoso e quindi pungente. In dialetto pungere si dice “pincicare” o “puncicare”. Il sapore è simile a quello dei carciofi. A proposito della cucina ebraica ottimo piatto sono i “Puncicarelli alla giudia” (soffrigere aglio con olio mettere ad insaporire i puncicarelli tagliati a metà) versare vino bianco salare e pepare. Evaporato il vino aggiungere poca acqua e del prezzemolo tritato (volendo anche poco pomodoro) e si fanno cuocere.
E che dire dei paccasassi e dei grugni?
Il saporito calvofiore, i broccoli strascinati, la fragrante misticanza, il cece condito con olio di oliva di frantoio aglio e rosmarino, i fagioli accompagnati con salsiccia e con cotica fresca di maiale sono tra le verdure ed i legumi che entrano nella abituale dieta dell’anconitano.
La ns. cucina eccelle però in alcuni piatti di pesce.
La saraghina a “scotta deti”, la frittata di papalina, la celebrata zuppa di ballari, le gustosissime sogliole fritte o impanate, ben oliate cotte ai ferri con trito di prezzemolo, le orate all’anconitana, vera leccornia dalla superba salsetta; i pauri lessi conditi con olio e pochissimo limone, i moscioli alla marinara, le saporite pannocchie, i polpi e le seppie cotte in mille modi, le crocette e i bombarelli in porchetta non rappresentano che una parte di piatti di pesce che costituiscono il vanto della cucina anconetana.
COME SE MAGNA LE CRUCETE IN PORCHETA
Se pine in tra do’ deti come un fiore;
le bagi come fosse el primo amore,
prima in tel cuderizzo, un bagio seco,
po’ volti e bagi in do’ che c’era el beco.
Ciuci e riciuci, lichi scorze e deti :
è un ino de chiopeti e de fischieti
e te viénene su qùi ciciolini
che udorene de mare e de giardini.
Ricòrde.te ma prò che la cruceta,
da per lia sola, è misera, pureta;
è come un quadro pieno de vernige,
un quadro belo, ma senza la cornige.
E alora perché el gòde sia completo,
ce vòle, digo vole, un bichiereto
de vì ogni sète cici , in abondanza,
de modo che ce sguazi in tela panza. …
lo guardo ‘sta cruceta sbrozolosa
cun ‘st’anima gentile; cià qualcosa
del caratere nostro ancunetà :
rozo de fòra, duro, un po’ vilà,
ma drento bono, un zuchero, ‘n amore,
ché nun conta la scorza, conta el core!
Eugenio Gioacchini (Ceriago)
Un discorso a parte però meritano sia lo stoccafisso che il brodetto.
Per quest’ultimo vanno famosi molti centri del litorale marchigiano. Si sa che quello che si chiama “brodetto marchigiano” non è, in realtà, un’unica entità culinaria, perché lo si produce in due distinte edizioni.
Vi è il brodetto che si prepara sul litorale che dal Conero scende a sud e prende il nome di Portorecanati e vi è quello della zona nord del Conero che il è il vanto di Ancona.
Il primo usa infarinare il pesce, fa un brodo denso ed adopera lo zafferano selvatico; il secondo non infarina il pesce, usa un brodo sciolto ed adopera l’aceto senza zafferano; ad ambedue si aggiungono le fette di pane.
Abbrustolito in quello, semplicemente strofinato con aglio in questo.
L’uno e l’altro richiedono numerose qualità di pesce (alcune delle quali indispensabili).
Per quanto riguarda lo stoccafisso all’anconitana mi limito a ricordare che sulla priorità e sulla autenticità della sua ricetta sono stati versati fiumi di inchiostro; quello che è certo è che si tratta, con le patate o senza, con il latte o senza, di un piatto da un gusto forte, particolare, che ha sempre goduto e, seguita a godere, del favore dei buongustai.
La polenta, consumata dai commensali intorno alla spianatora condita con sugo di salsicce e costarelle di maiale, le pingiarelle fatti con la pasta per il pane, sono gnocchetti che si condiscono con unto di lardo, le lasagne incassettate, la pasta pelosa, gli spaghetti con i moscioli, con le vongole o con i ballari, le zuppe di verdure o di legumi con base di lardo soffritto, le pastasciutte con il sugo finto, i vincisgrassi sono fra i primi piatti maggiormente in uso nel ricettario anconetano.
NÒNA
di Annalisa Galeazzi
Quantu te guardavu dal bassu verzu l’altu
te vedevu alta, zempre davanti ai furnèli
co la parnanza a cucinà tante ròbe bòne.
Quante volte chiedevu : ” Nòna,
me fai el budinu al ciuculatu,
i gnochi, i vincisgrasi ?”
Quante volte m’hai fatu ‘na careza
e m’hai presu in braciu pe’ cunzularmi
se un cumpagna m’aveva canzunatu….
T’ho pure rifilatu el cà, che era miu,
ma nun ciavevu vòja de purtalu a spassu.
E’ passatu tantu tempu,
ade’ so’ io che te guardo dall’altu
e vedu ‘ na schina curva,
i capéli ingrigiti e le mà grinzite.
So’ iu che te portu i vincisgrasi che ho cucinatu,
so’ iu che quantu te guardu me fai tenereza,
e sule rughe tue pasu ‘na careza.
(poesia segnalata nella Sezione Dialetto Marchigiano)
Come ho già avuto modo di dire, proprio dalla campagna viene buona parte della caratterizzazione della cucina anconitana.
Non per caso quindi si registra il trionfo dei prodotti della terra non solo per quanto si riferisce alle saporose verdure ma anche per quanto concerne le carni.
L’ottima qualità fornita dalla campagna ha consentito la preparazione di piatti che rivelano l’amore delle ns. donne per le cose sane e genuine.
Parlo delle carni gustosissime sia che siano di ovini, di bovini, di maiale, di coniglio o di pollo.
La cucina, da noi, va affrontata senza prefabbricati programmi di scelta per non togliere il piacere della sorpresa, non tanto per la elaborazione delle ricette, ma per la maestria con cui le stesse vengono preparate.
Vasta è la scelta dei piatti tipici in materia di secondi per cui mi limiterò a citarne solamente alcuni.
Il pollo ed il coniglio in potacchio o in porchetta, il manzo brasato alla marchigiana, i ciarimboli alla griglia o in teglia (budella di maiale salate ed essiccate con peperoncino, semi di finocchio e altre erbe aromatiche, ottimi, caldi fra due fette, di pane), il saporito agnello cotto in un tripudio di aromi tra cui primeggia l’aglio e il rosmarino, le gustosissime spuntature (budella di vitello da latte che non deve aver mangiato l’erba nemmeno una volta; arrostite e aromatizzate con il pepe), l’appetitosa porchetta e la saporita trippa alla canapina sono tra i piatti quelli che per primi si sono affacciati alla mia memoria.
GENTE E MAGNÀ’ D’ANCONA
di Franco Sbordoni
P’el Domo e p’ el Passeto è nota Ancona.
Ma è nota in più, scurdàsse nun se deve,
p’r i modi, gnurantéza bèla e bona,
d’ j abitanti. E p’ el magna’ e p’ el béve!
Che po’ el magna’ fa spèchio, nun a caso,
al sintimento nostro qui in Ancona!
‘N tantì’ ruzéto e… bono. Solo a naso
già el noti. Ma po’ scopri che funziona!
‘N’esempio, el più migliore el pòi scuméte,
è stato fato e nun so’ io ch’ el fago .
Nun ce se po’ scurda’ de le crucéte,
‘na muchia be’ cantate da Ceriago !
Parlàmu de l’udore: rimbambisce
le bancarèle cu’ le spuntature.
‘N’è roba fina, ma però culpisce
si te le ‘ssàgi! e po’ le ‘prèzi pure!
Se pò’ casca’ in diliquio pe’ l’udore
de quatro saraghine a scòta déti!
Se pò’ le magni, godi p’el zapore!
Nun dighi ch’ è rubàcia da puréti!
E el stucafissu in umido e patate?
Vulgare, ma squisito è ‘st’ ingridiente!
Oh, Gigli, per magnàlo, ‘n’è sciapate,
da Boston ce veniva ! Hai dìto gnente !?
Ma è pachia ancora el resto, e ‘na mastèla !
Cusa j vòi di’ ai rosciòli ‘gostinèli?
O ai latarìni friti con pastèla?
O; fati arosto, ai moscioli e ai canèli ?
E nun parIamo de la paranzòla,
d’ i bàlari, i tartufi col limo’,
d’ i vincisgràssi, un piàto d’alta scòIa!!
E la cucina abrèva? ‘N’invenzio’ !
Magnà’ sultanto nun sarìa, p’rò, bèlo,
benché qu’i piati è boni, sani e tanti,
se manca el Roscio Conero. Un vinelo
che pòle mete a sede a molti Chianti !
E l’aqua con putere de magìa,
le Tredici Canèle ! Nun ce credi ?
La beve el furestiéru ?, ‘n va più via !
Fa nasce le radìce sota i piedi!!
(Un vecchio detto dice che tutti coloro che vengono ad Ancona solo per un breve periodo, ma poi vi si trasferiscono definitivamente,”hanno bevuto l’acqua delle Tredici Canele. In realtà essi si trovano bene in questa bella città, apprezzando il grande cuore degli anconetani anche se poco
cerimoniosi.)
Capitolo a parte merita “come bevono gli anconetani”. Naturalmente vino. L’anconitano sa che dalla zolla alla vite, dall’uva al mosto fino alla ns. tavola la storia del vino racconta il ciclo della natura e delle stagioni.
Il vino ristora e rinfranca. Provate a toglierlo dalla mensa e ditemi se non è come privarla del suo centro vitale, dal quale irraggia un fascino lieto e misterioso.
Il vino è protagonista del cerimoniale della tavola: ne è la parte intellettuale.
I gastronomi ne raccomandano matrimoni d’amore fra vivanda e vino con rigoroso rispetto della consanguineità e del rango.
Il vino è aristocrazia della mensa, e pensare a cibi succulenti accompagnati da un vino mediocre è come vedere una bellissima donna vestita e truccata in modo orrendo.
Ne soffre la vista, patisce il buon gusto.
La ns. gente ha da secoli capito la lezione e con anni di amorevoli cure è riuscita a ricavare dai suoi vigneti vini che ben si adattano con i suoi cibi.
Fra i più celebrati troneggiano il Verdicchio ed il Rosso Conero.
Il primo ha origini che si perdono nella notte dei tempi. Si legge, di Bernardo Giustiniano, che quanto Alarico passò per il Piceno prelevò quaranta some in barili e se li portò a Roma “nulla a sé stimando recar sanitade et bellico vigore melio del menzionado verdicchio”.
Persino quella linguaccia di Pietro Aretino ha scritto, riferendosi al verdicchio “Onde si concluse, il laude della sua perfezione, che tale soavità di liquore, temperatamente bevuta, moltiplica le forze, cresce il sangue, colorisce la faccia, desta l’appetito, fortifica i nervi, rischiara la vista, ristora lo stomaco, provoca l’orina, incita il sonno, discaccia la malinconia e rende l’allegrezza. Si “che beva l’acqua chi vuole”, disse un pedante a cui la taverna era stata scola”.
Il verdicchio ha colore paglierino tenue, brillante, con riflesso tendente al verde, odore caratteristico, sapore asciutto, armonico, con retrogusto gradevolmente amarognolo: vuole antipasti magri, paste asciutte pesci lessi, fritti o in brodetto.
Va servito a temperatura di 10 – 12 ° C.
Se degustato come aperitivo la temperatura è di 8 – 10 ° C.
Il tipo Brut richiede una temperatura di 8° C.
Si avvantaggia se bevuto in un bicchiere a forma di tulipano in quanto consente la migliore espressione dei suoi profumi (di frutta, di fiori) che contiene specialmente in gioventù.
Il secondo, il rosso Conero, nasce dalle vigne che coprono il territorio che si estende oltre le falde del Conero tra Sirolo e Numana e altri comuni dell’anconitano.
Di colore rosso rubino, brillante, odore gradevole, sapore sapido, armonico, asciutto e ricco di corpo.
E’ adatto ad un certo invecchiamento, in media 2 – 3 anni.
Le partite migliori si avvantaggiano dell’invecchiamento in botti di rovere.
Va servito ad una temperatura di 18 – 20° C. va aperto qualche ora prima di essere servito.
Può essere considerato un vino di tutto pasto.
Si accompagna molto bene a piatti sostanziosi, dal sapore intenso e deciso come arrosti di carni rosse, carni alla griglia, porchette.
Va anche abbinato a primi piatti ripieni: tortellini, agnolotti, canelloni e vincisgrassi.
Lo stoccafisso all’anconitana lo preferisce giovane e fruttato.
Nell’età avanzata ama la cacciagione in salmì.
Giunto al termine di questa carente approssimativa panoramica su “cosa mangiano” e “come bevono” gli anconetani, non mi resta che sottolineare come la buona cucina rappresenti anche un valido argomento di industria e di turismo.
Narra l’antica e la moderna storia
Che i gran guerrieri, gli uomini preclari
Eran famosi per la pappatoria;
tutto finiva in cene e desinari
e di fatto un eroe senz’appetito
ha tutta l’aria di un rimminchionito
– Giuseppe Giusti –
Il turista che lascia Ancona dopo essersi deliziato l’occhio con le bellezze della natura e dell’arte deve ritornare al proprio paese soddisfatto anche nel corpo.
Solo così il buon ricordo della ns. terra sarà completo.
Né va dimenticato che la storia del mondo è anche scritta nella storia della sua cucina.
A questo punto avrei concluso.
Sento però, prima di lasciare il microfono, il dovere di scusarmi per il peccato di presunzione, che certamente ho commesso, nel voler trattare questo impegnativo argomento di fronte a persone assai più di me qualificate a farlo.
Sono grato all’efficiente e gentile cerimoniere Signora Oriana Girombelli per la disponibilità e per lo spirito con cui ha organizzato questa serata e alle amiche che hanno suggerito le ricette dei piatti che andremo a degustare.
Un grazie anche allo Chef Sig. Ideale Carini e al direttore Sig. Giancarlo Magnarelli, che per il Ristorante del Passetto hanno realizzato le ricette.
Al Direttore Alfredo Bartolomei Cartocci che ci ha letto con grazia e maestria, gustosi, è il caso di dirlo, sonetti in vernacolo anconetano va il nostro applauso più caloroso.
Saluto infine tutte le Signore qui convenute, quali vere depositarie della buona cucina anconetana.
In ogni caso, spero che il peccato di presunzione venga riscattato, in parte, da questo mio doveroso riconoscimento dei meriti e delle capacità altrui e trova una valida giustificazione nell’amore che ho per la buona cucina.
E se è vero che la buona “tavola” contribuisce a creare nuove amicizie ed a rinvigorire quelle esistenti, mi sia consentito, al termine del mio dire, citare una lirica di un ignoto autore cinese che recita:
“Un bel gioco mi ha insegnato Jang senza balocchi né fionde né gusci di conchiglia: avere in due un segreto. Lo volete conoscere? Si chiama AMICIZIA”.